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Le basi del linguaggio: computazionali o materiali?

Martedì 14 dicembre 2010, ore 20,30

In linguistica e nelle neuroscienze è oggi diffusa l'idea che le basi del linguaggio siano prevalentemente di tipo computazionale: il linguaggio emergerebbe da strutture del cervello innate, uguali per tutte le lingue, e si strutturerebbe mediante il "posizionamento" di una serie di parametri. In contrasto con questa visione, si fa strada l'idea che i fondamenti del linguaggio siano materiali, legati cioè al corpo e alle esperienze che esso vive: il linguaggio sarebbe il risultato di meccanismi e processi di un cervello in interazione con un ambiente complesso e soprattutto sociale.
L'attenzione si sposta allora dall'enunciato al discorso: si parla per narrare, e molte risorse delle lingue si spiegano meglio come conseguenze linguistiche della capacità di narrare. Una varietà di meccanismi strutturali del linguaggio (la sua segmentabilità, la struttura fonologica, i pronomi personali, la capacità di indicare il tempo e il luogo, gli agenti e i pazienti) dipendono dal contesto pragmatico della comunicazione. Inoltre, se nella prima ipotesi lo sviluppo del linguaggio è un salto qualitativo nell'evoluzione, la seconda vede una maggior continuità tra l'uomo e gli altri animali, pur se il linguaggio vero e proprio resta prerogativa umana.
Quali evidenze hanno spinto i ricercatori verso questo nuovo punto di vista? Quali nodi restano ancora da risolvere? Un'ulteriore ipotesi, portata avanti dai sostenitori della basi materiali del linguaggio, è che le strutture del cervello che lo producono siano affini a quelle dell'orientamento spaziale: quali prospettive di ricerca apre questa affascinante idea?

Francesco Ferretti

Francesco Ferretti è professore associato di Filosofia e Teoria dei Linguaggi presso l'Università Roma Tre.
Le sue ricerche riguardano gli approcci evoluzionistici e cognitivi allo studio del linguaggio; lo studio delle rappresentazioni mentali (in particolare lo studio delle immagini mentali); l'analisi dei rapporti tra percezione e linguaggio; lo studio dei processi di comprensione/produzione linguistica nel caso di deficit percettivi e cognitivi.
Tra le sue ultime pubblicazioni: Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana (Roma, Laterza, 2007); Comunicazione e scienza cognitiva (a cura di, con D. Gambarara, Laterza, 2006); Cartographies of the Mind (a cura di, con M. De Caro e M. Marraffa, Springer, 2007).

Raffaele Simone

Ordinario di Linguistica Generale dal 1980, ha studiato Filosofia a Roma e ha poi trascorso periodi di studio in Francia e in Germania. Ha insegnato in diverse università italiane prima di passare alla Sapienza di Roma (1980) e a Roma Tre (1992).
È autore di numerosissimi lavori pubblicati in Italia e all'estero su riviste specializzate e di una dozzina di volumi; ha progettato e diretto opere lessicografiche innovative. Insegna e studia in centri e università di vari paesi del mondo. È componente del comitato editoriale di riviste internazionali e membro effettivo o onorario di associazioni scientifiche.
Attualmente si occupa di teoria della grammatica, teoria delle costruzioni e delle categorie, comparazione di lingue romanze, tipologia linguistica. Fuori dall'ambito tecnico, ha un'intensa attività di saggista: i suoi volumi più recenti sono La Terza Fase (Laterza, 2007; tradotto in varie lingue) e Il Mostro Mite. Perchè l'Occidente non va a sinistra (Garzanti, 2008; appena uscito in francese da Gallimard).




Letture

da Borges, El Golem

Se (come il greco afferma nel suo Cratilo)
la cosa ha il proprio archetipo nel nome,
la rosa è nelle lettere di rosa,
nella parola Nilo è tutto il Nilo.

E, fatto di vocali e consonanti,
sarà un tremendo Nome che l'essenza
di Dio compendi e che l'Onnipotenza
serbi in lettere e in sillabe precise.

Adamo lo conobbe nel Giardino,
e gli astri. Poi lo cancellò la ruggine
(dicono i cabalisti) del peccato
e le generazioni lo han perduto.

Le malizie dell'uomo e il suo candore
non hanno fine. Sappiamo che un tempo
il popolo di Dio cercò quel Nome
nelle lunghe vigilie dei suoi ghetti.

Diversamente da altre che una vaga
ombra insinuano nella vaga storia,
è ancora verde e viva la memoria
di Leon Giuda, che fu rabbino in Praga.

Smanioso di sapere quel che sa Dio,
Leon Giuda si provò in permutazioni
di lettere e in complesse variazioni
e infine disse il Nome che è la Chiave.

la Porta, l'Eco, l'Ospite e il Palazzo,
su un fantoccio plasmato con maldestre
mani, per istruirlo negli arcani
del Tempo, dello Spazio, delle Lettere.

Il simulacro alzò le sonnolenti
palpebre e scorse sagome e colori
che perduti in rumori non intese
e saggiò timorosi movimenti.

Poco a poco si vide prigioniero
(come noi) in un reticolo sonoro
di Prima, Dopo, Ieri, Mentre, Ora,
Destra, Sinistra, Io, Tu, Loro, gli Altri.

(il cabbalista che operò da nume
quella vasta creatura chiamò Golem;
son verità che riferisce Scholem
in un dotto passaggio del suo libro).

Gli spiegava il rabbino l'universo:
'questo è il mio piede, il tuo, la corda' e ottenne,
dopo diversi anni, che il perverso
spazzasse, bene o mal, la sinagoga.

Forse vi fu un errore di grafia
o di pronuncia del Divino Nome;
per quanto eccelsa la magia, non seppe
parlare mai quell'apprendista uomo.

I suoi occhi, di cane più che d'uomo,
e ancora più di cosa che di cane,
seguivano il rabbino per l'incerta
penombra delle stanze di quel carcere.

[...]

da Lewis, Il più grande uomo scimmia del pleistocene

Alexander, tu sai disegnare, ma non sei in grado di fissare i tuoi disegni. Wilbur, tu sai affilare la selce per farne buone scuri, ma - mi dispiace dovertelo dire - è roba ben poco migliore degli eòliti. Quanto a te, Ernest, tu credi di saper pensare, ma in realtà non puoi, perché la gamma delle cose che facciamo è troppo limitata. Ciò significa non poter estendere il nostro ridottissimo vocabolario e la nostra rudimentale grammatica; il che, a sua volta, comporta scarse capacità di astrazione. Il linguaggio precede e nutre il pensiero, come sai; e in realtà è poco più che una cortesia chiamare linguaggio le poche centinaia di sostantivi di cui disponiamo, la ventina di verbi tuttofare, la misera scorta di preposizioni e di suffissi, la continua necessità dell'enfasi, della gesticolazione e dell'onomatopea per rimediare alla scarsità di casi e dei tempi. No, no, figlioli miei: culturalmente siamo poco più evoluti del Pithecanthropus erectus, il quale, credete a me, ha il destino segnato.


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